Le immagini di Ottorino Stefanini colpiscono per la loro capacità di portare l'osservatore al cuore delle sofferenze esistenziali e sociali del nostro tempo: spersonalizzazione, paura, incertezza, incomunicabilità, esclusione, omologazione.
I manichini senza volto sullo sfondo di città grigie e atmosfere rarefatte aprono il sipario su un'umanità svuotata e indifferente. Riconoscere in essi le nostre malattie significa iniziare a guarire.
Forse per questo alcuni tra i dipinti di Stefanini portano in sé una piccola traccia di speranza, come la finestrella accesa o la luna chiara nel grigiore di Paesaggio invernale.
L'arte concepita come strumento di impegno e di denuncia sociale, come pensiero che si traduce in figura e ci aiuta a decifrare noi stessi: tanto possono dirci queste opere in cui si respira l'immobilità atemporale della pittura metafisica di De Chirico e - dietro il velo della presunta ovvietà delle cose - l'enigmaticità del surrealismo di Magritte.
C'è un ritorno su determinati temi che caratterizza l’opera dell’artista, non certo per un avvitamento del pensiero, ma – al contrario – per un procedere che scava e accede, attraverso l’immagine, alle profondità dell’umana alienazione per farsene coscienza critica. I poli entro i quali si muove questa produzione pittorica potrebbero essere raccolti in due principi antitetici.
Da una parte l’immobilità, rappresentata dalla serie dei cappelli: figure statiche che soggiacciono ai meccanismi dell’omologazione e della massificazione, tasselli indifferenti di una macchina produttiva che ha asservito la stessa natura ai bisogni della produzione. Dall'altra parte il movimento – già interno alla serie dei cappelli (si noti per esempio il fiocco che svolazza sopra uno dei cappelli rossi di Singolare collettivo) - evocato soprattutto nella serie Human: uomini che volteggiano come aquiloni, legati tra loro necessariamente, senza poter sapere se il legame significhi salvezza o perdizione, libertà o catena. |